L'aniddE so' cadutE, ma le dicete so’ rimaste |
L'ha scritt carlo "U Sinnache" | |
mercoledì 19 novembre 2008 | |
![]() Ancora una volta lo sguardo perplesso di Archibald sottolineò che il vernacolo tarantino non gode della universale comprensibilità e mi accinsi a chiarirgli il significato del motto citando il chiarissimo Adolf Erik Jèsslsòld (Dalbjo, 1832 - Annegamento nel lago dei cigni della Villa Peripato durante un bagno notturno nel ferragosto del 1901), studioso di araldica e specialista nella preparazione di “gratta-gratta” alla cozza pelosa, che in un suo illuminante saggio intitolato “La classe non è acqua, sennò a Taranto non avevano bisogno dell’acquedotto pugliese” per i tipi della Lìvm Qualkekkòsa editore, spiega che l’espressione rivendica orgogliosamente un passato nobile in un presente difficile per cui, anche se caduto in disgrazia, un nobile rimane tale nello spirito tanto che anche privo dei segni esteriori di riconoscimento (corona, mantello di ermellino, scettro o, come nel nostro caso, anelli) la sua superiore essenza viene comunque notata. Si noti bene che si parla di nobiltà e non di aristocrazia, e la differenza tra i due termini è fondamentale, tanto che si potrebbe dire che nobili di nasce ed a volte aristocratici si diventa (o si crede di diventarlo); la nobiltà di cui di discute non si misura in quarti blasonati ma in quella onestà e schiettezza d’animo che ci porta anche ad andare conto i nostri interessi se “noblesse oblige”, pur consapevoli che poi “le peperusse ushkane” |