Lasse dè mètere e va’ a’ pisà |
L'ha scritt Carmela "jatta acrest'" | |
sabato 21 giugno 2008 | |
Taranto è “la città dei due mari”, in onore a Mare picce e Mare màsce, ma è riduttivo, perché di mari ne ha molti di più… uno verde di pampini e ulivi e in questo periodo uno dorato che cullato dal vento ondeggia sui nostri campi.
In questi giorni percorrendo la litoranea e i paesini della provincia ci si imbatte in distese dorate, è il grano, il nostro oro, che si protende al cielo aspettando di essere raccolto. Oggi tutto avviene con le macchine che mietono e trebbiano , ma una volta no… Oggi andiamo al supermercato per rifornire le nostre dispense, ma una volta non c’era l’approvvigionamento globale a garantire gli scaffali pieni nei supermercati, ognuno aveva, o cercava di avere il suo terreno…la campagna o meglio la ‘ngegna da coltivare tutto l’anno per provvedere almeno al fabbisogno della famiglia. Una malannata, con i raccolti distrutti, portava fame e miseria… Uno dei raccolti primari oggi come ieri, è il grano, un elemento indispensabile per la nostra vita. Vicino le masserie nascevano nuclei abitativi dei contadini che provvedevano a lavorare i campi, a trasformare e commerciare le risorse agricole e ad accudire gli animali da lavoro e da allevamento. Anche mia nonna faceva parte di loro e raccontava che arrivavano nelle masserie percorrendo chilometri e chilometri a piedi scalzi – pronti ad alzarsi all’alba per recarsi sui campi.
Dove il termine pisà, false friend dialettale, non indica la pesatura del raccolto ma la trebbiatura, ossia la sua battitura a mano mediante semplici bastoni, oppure con l’aiuto di cavalli asini o buoi, sfruttandone il calpestio, o facendo trainare grosse pietre, tutto per sgranare le spighe e farne uscire i chicchi. Nella nostra parlata il termine pisà ha diverse eccezioni come quando si dice: te pìse de mazzate (ti carico di botte). U’ pisature è il termine che indica il pestello, detto anche u’ murtale (da mortaio). Una volta finita la trebbiatura si aspettava che si alzasse il vento per continuare alla vintilàta. Ossia alla pulitura del grano mediante la separazione dei chicchi dalla paglia. Con i forconi si lanciavano le spighe sgranate in aria così il vento faceva volare lontano la paglia e i chicchi ricadevano al suolo. Il grano veniva raccolto in sacchi e portato nei granai delle masserie, la paglia veniva raccolta e portata nelle stalle perché serviva a sfamare gli animali. U’ respiche … Dopo la mietitura si procedeva alla bruciatura d'u’ ristuccie (delle stoppie). I meno abbienti andavano a chiedere ai massari, il permesso, formale perché sempre concesso, di scè a u’ respighe (andare a spigolare) nei campi dove avevano appena mietuto. Con tutta la famiglia andavano a raccogliere le spighe che erano rimaste “’mmienze a u’ ristucce” (tra le stoppie), tra i solchi della cenere, e i chicchi di grano sfuggiti agli uomini e agli uccelli …ma la farina ricavata da quei chicchi bruciati avrebbe sfamato tutta la famiglia e questo era l’unico modo per garantirsi “il pane”… e non solo. ‘Mmienze a ‘u ristuccie raccoglievano anche “le cuzzedde” (le lumache) – la carne in carrozza dei poveri - che erano una vera e propria ghiottoneria oltre che una fonte di nutrimento perché ricchi di proteine.
Infondo sempre di carne si tratta… I campi si animavano di vita, lavoro, ma anche di grida, risate, canzoni e balli propiziatori, ma anche “balli di San Vito” ( S. Vito si festeggia il 15 giugno) causati dal morso della tarantola, che pare abitasse proprio i campi di grano e si divertisse a “pizzicare” le mietitrici che “avvelenate” dal morso della tarantola e dai rimorsi di una vita di privazioni fatta di regole da rispettare e di “onore” da salvare (quale onore? e di chi? – quello della gente che mormora?...) |
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Ultimo aggiornamento ( lunedì 23 giugno 2008 ) |