L’altro giorno ho ricevuto una inaspettata
telefonata da una mia zia residente a Parma. Nella classe della sua
nipotina, che frequenta la scuola elementare, la maestra ha notato come
la maggiornaza degli alunni abbia genitori o nonni provenienti da altre
regioni o, addirittura, nazioni e così, per favorire la reciproca
conoscenza, ha chiesto ad ognuno dei bambini di farsi raccontare dei
proverbi o delle storielle proprie della terra d’origine, da narrare
poi a turno ai propri compagni di classe.
Mia zia ha lasciato la Puglia da ragazzina e, pur
tornandoci in vacanza quasi ogni anno, non aveva memoria di quanto
richiesto dalla maestra, così mi ha chiesto di fornirle un po’ di
materiale in merito. Ho raccolto volentieri l’invito e, mentre buttavo
giù due righe, ho pensato a quando, anni fa, raccontavo le favole a mio
figlio per farlo addormentare (erano favole così efficaci che di solito
il primo a prendere sonno ero io!) ed a come potrebbe essere
interessante, per chi vive e lavora fuori Taranto, raccontare ai figli
qualche storiella con il sapore della saggezza popolare ionica. Penso
ad Alessandro ed a Vincenzo in Lombardia, ad esempio, oppure a Massimo
nella lontana Spagna oppure a Marco nella fredda Svezia, ma penso anche
a chi a Taranto ancora ci abita, ma magari alcuni di questi racconti
non li conosce o non li ricorda. A tutti loro, ed ai loro bimbi,
sono dedicate queste storielle, che non hanno certo la pretesa di
insidiare la fama di Cenerentola o Biancaneve, e che sarà compito di
chi le racconterà sviluppare ed arricchire in base ai propri ricordi ed
alla propria fantasia sulla base del breve riassunto di seguito
riportato. Buona lettura! L’anello di San Cataldo Cominciamo,
doverosamente, con quella dedicata al Santo Patrono della città di
Taranto, ovvero San Cataldo. Si racconta che fosse un vescovo irlandese
che, di ritorno da un pellegrinaggio in Terra Santa, fece naufragio
sulle coste ioniche perchè destinato a portare conforto e fede alle
popolazioni tarantine duramente provate dalle invasioni dei pirati
saraceni. Sotto la sua guida spirituale la città ebbe una nuova
rinascita e la fede crebbe con vigore, anche grazie ai numerosi
miracoli ed alle tante prodigiose guarigioni operate dal Santo. Si
racconta che un giorno San Cataldo fosse a bordo di una barca, sorpresa
in mare ad una improvvisa e violenta tempesta; nel vedere le onde
crescere momento per momento il suo equipaggio fu preso da terrore e lo
pregarono di intercedere per loro salvezza. San Cataldo allora si sfilò
il suo anello pastorale e lo gettò in mare, ottenendo così l’immediata
scomparsa della bufera e in più, miracolo nel miracolo, nel punto dove
l’anello si era immerso, l’acqua del mare non era salata, ma dolce e
fresca come quella di un fiume di montagna! Questo particolare punto
del mare di Taranto viene chiamato proprio “Anello di San Cataldo”, in
ricordo di quell’evento, ed è facilmente individuabile, per via della
differente colorazione e movimento delle acque, anche ad un occhio poco
esperto. Si tratta in verità, come è stato scoperto non molti anni fa,
di un “citro”, ovvero dello sbocco in mare di uno dei tanti
fiumi carsici che, partendo dagli altopiani della Murgia tarantina,
corrono sotterranei sino al mare e che, a causa del continuo apporto di
acqua dolce e fresca hanno reso i mari di Taranto ideali per la
coltivazione delle cozze. Si tratta, insomma, di un fenomeno fisico
molto chiaro ma a Taranto, sotto-sotto. Sono in tanti a sperare che
sott’acqua, magari nascosto dalla sabbia, ci sia l’anello di San
Cataldo che veglia sulla incolumità dei pescatori...
Il gallo e il topo Un
gallo ed un topo decisero di aiutarsi a vicenda per raccogliere delle
noci; il gallo le avrebbe staccate dall’albero ed il topo, giù in
basso, le avrebbe raccolte in un sacco per farne poi parti uguali. Il
topo però, via via che il gallo faceva cadere le noci, le rodeva con i
suoi denti e le divorava in men che non si dica. Il gallo, accortosi
che il compagno non manteneva i patti, per punirlo gli fece cadere una
grossa noce dritto in testa e il topo, colpito in pieno, scappò via
gridando: “Mièdeche, sanème u cucheruzze, ca m’l à rutte cumbàre jaddùzze!” (dottore curami il cucuzzolo, perchè me l’ha rotto Compare Galluccio!) E’ una storiella che si racconta ai bambini per ammonirli a non essere golosi ed egoisti.
La volpe e il riccio Sorpresa
nel bosco da una bufera di pioggia e neve, una volpe riuscì a malapena
ad infilarsi, tutta rannicchiata in una piccola tana. Dopo un po’, nel
pieno del temporale, giunse un riccio che, tutto intirizzito, la pregò
di farlo entrare tanto, disse, si sarebbe appallottolato su sé stesso
ed avrebbe occupato pochissimo spazio. Mossa a pietà la volpe lo fece
entrare ma il riccio, una volta entrato, iniziò a sgranchirsi, a
scuotersi la neve da dosso ed a distendersi in lungo ed in largo,
pungendo più volte la volpe che gli aveva dato ospitalità. Questa allora si lamentò ricordandogli i patti ed il riccio, arrogantemente, rispose: “A cci se ponge cu jèsse fore!” (chi si sente pungere esca fuori!). E’
un modo di dire usato per sottolineare l’altrui ingratitudine ma, più
spesso, per invitare chi non gradisce una determinata situazione, a
dirlo con chiarezza.
Il lupo e l'orso Un
giorno di tanti anni fa, la foresta era tutta in agitazione: il leone
aveva la febbre e stava molto male. Tutti gli animali andarono a
trovare il re della foresta, per suggerire una cura o per portargli una
parola di conforto in attesa che guarisse e tornasse a ruggire più
forte di prima. Tra i tanti animali accorsi al capezzale del regale
malato c’erano anche un lupo ed un orso, che cercarono, come gli altri
visitatori, di alleviare il disagio della malattia del leone. Fu
così che l’orso, un po’ per farsi bello davanti al re leone ed un po’
per fare un dispetto al lupo - con cui non era mai andato molto
d’accordo - disse: “Mi sembra che il nostro re soffra il freddo a causa
della febbre, bisognerebbe coprirlo con una bella pelliccia calda,
magari con quella di un lupo!”. Non aveva neppure finito di parlare
che subito alcuni giovani leoni si avvicinarono al lupo, decisi a
togliergli la pelliccia per riscaldare il febbricitante malato. Il
lupo però, vista la sua pelle in pericolo (in tutti i sensi!) fu lesto
a rispondere: “Ben volentieri offrirei la mia umile pelliccia per la
salute del nostro amato sovrano, ma questa è piccola e tutta
spelacchiata, del tutto insufficente per coprire e scaldare il nostro
grande re. Molto meglio sarebbe usare per la bisogna la calda e folta
pelliccia di un grosso orso!”. Così i leoni si lanciarono sull’orso e
in men che non si dica lo scuoiarono dalla testa ai piedi, mentre il
lupo lo ammoniva dicendo: “A cammera reale, no’ dì bene e no’ dì male!”
(nella stanza del re non parlare né bene né male degli altri). Il detto
viene usato per consigliare qualcuno a non parlare male di altri di
fronte ai superiori, perché il suo dire può ritorcersi contro di lui.
La zita di Pulsano A
Pulsano, un paesino della provincia di Taranto, c’era una volta una
ragazza vanitosa a cui piaceva molto vestirsi con abiti pieni di
fiocchi e ghirlande. Immaginatevi quindi come era vestita il giorno del
suo matrimonio: una gonna ampia e con un lungo strascico, un corpetto
tutto nastri e lustrini ed un cappello pieno di alte piume che
oscillavano ad ogni movimento. Al momento di entrare in chiesa per
la cerimonia però si presentò un problema: il vestito e il cappello
erano così ingombranti e voluminosi che non passavano dalla porta ma la
zita (sposa) non voleva togliersi il cappello per non rovinare
l’acconciatura dei capelli né voleva piegarsi per non sgualcire il
vestito, pretendendo invece che venissero chiamati dei muratori per
allargare il vano della porta a forza di picconi. Il tempo intanto
passava tra l’attesa dei muratori, i capricci della novella sposa e
l’impazienza, sempre più crescente, degli invitati finché uno di loro,
stufo di aspettare, si piazzò dietro la sposa viziata e con un
improvviso calcio nel sedere la fece arrivare di colpo al centro della
chiesa! Ancora oggi, si indica come “a zita de Pusane” (la sposa di Pulsano) una persona che attende a lungo o che ha pretese capricciose.
Uno strano guadagno Nel
1385 Maria de Brienne, contessa di Lecce, andò in sposa a soli 17 anni
a Ramondello Orsini, principe di Taranto. Alla morte di costui,
avvenuta nel 1406, Ladislao, re di Napoli, partì con un grosso esercito
per occupare questi due ricchi territori, vasti più della metà del suo
reame. Ma purtroppo per il re Ladislao, i soldati di Maria de Brienne
opposero una valorosa resistenza e la guerra proseguiva ben oltre le
attese del re napoletano. Ladislao allora decise di tentare di
ottenere con l’inganno quanto non aveva conquistato con la forza, e
fece dire a Maria da uno dei suoi ambasciatori che era rimasto colpito
dal suo coraggio e dalla sua bellezza e voleva sposarla al più presto.
Maria fu molto lusingata dalla proposta ed a chi la avvertiva sulle
reali intenzioni di Ladislao rispondeva: “Non mi interessa, morirò
regina!”. Il matrimonio fu celebrato con grande sfarzo nel castello di
Taranto ma Maria fu regina per pochi mesi, dopo i quali venne chiusa in
prigione a Napoli per ben undici anni, fin quando, morto Ladislao,
venne liberata. A questo triste episodio si ispira a Taranto il detto “U uadagne de Maria Prène!” (il guadagno di Maria de Brienne) che indica un evento in cui ad un piccolo vantaggio si associa un grosso danno.
Le proteste di fratello Spiridione Molti
anni orsono, si teneva nella sede di una confraternita religiosa
tarantina la tradizionale asta per aggiudicarsi l'onore di partecipare
alla processione dei Misteri durante la settimana santa pasquale, ed
ognuno dei confratelli, interpellato dal Priore, esprimeva la sua
offerta. Giunto il turno del confratello Spiridione, richiestogli
quanto egli intendesse offrire, questi rispose con un secco e deciso
"niente!". La cosa destò notevole stupore tra gli altri confratelli,
poiché Spiridione si era sempre contraddistinto per la generosità delle
sue donazioni.Interrogato dal Priore sul perché della sua astensione,
Spiridione sfogò l'amarezza accumulata e repressa per un anno,
lamentandosi del fatto che durante la processione, la "troccola",
il caratteristico strumento che apre la processione e ne stabilisce il
ritmo dell’avanzamento con il suo crepitio, non si fosse fermata
davanti alla sua abitazione salutandolo con il suo caratteristico
suono, così come era usanza fare davanti alle abitazioni dei
confratelli. La cosa era molto dispiaciuta a Spiridione che esprimeva
così il suo disappunto e allora, senza perdere tempo, il Priore afferrò
la troccola e portatosi davanti a Spiridione, si lasciò andare ad una lunga e intensa "trucculesciata",
al termine della quale il sorriso tornò sul volto di fratel Spiridione
che, senza altri indugi, contribuì all'asta in modo ancor più generoso
che in passato.
Dall'aneddoto citato nasce il detto "A trucculesciata di fratel Spiridione", ad indicare un atto di riparazione ad un torto tardivo. Il regalo della regina Nel
maggio del 1797 il re Ferdinando di Borbone venne in visita a Taranto
accompagnato dalla moglie Carolina e, come sempre in queste occasioni,
la reale coppia fu subissata di preghiere, istanze e domande. Fu tra
l'altro chiesto di diminuire il tassa sul pescato, che all'epoca
ammontava ad un quarto di quello che veniva tratto a riva. La regina,
in partenza per una dilettevole battuta di pesca con tutto il suo
seguito, promise allora che il primo pesce che avrebbe abboccato al suo
amo sarebbe stato esentato dalla tassa.
La
fortuna giocò un tiro birbone ai tarantini ed il pesce che per primo
abboccò all’amo regale fu un misero gobbione, pesce di scarso valore e
che certo non era in cima alle preferenze degli speranzosi pescatori. Da allora "u pregge d'a riggina"
(il privilegio o il dono della regina, quanto la regina si è
compiaciuta di donarci; questa la traduzione del motto) indica, con la
rassegnata ironia che contraddistingue il tarantino, una concessione o
un dono assai inferiore a quanto era stato millantato o promesso dal
donatore. |