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Storielle tarantine PDF Stampa E-mail
L'ha scritt carlo "u sinnache" caprino   
lunedì 10 ottobre 2005

L’altro giorno ho ricevuto una inaspettata telefonata da una mia zia residente a Parma. Nella classe della sua nipotina, che frequenta la scuola elementare, la maestra ha notato come la maggiornaza degli alunni abbia genitori o nonni provenienti da altre regioni o, addirittura, nazioni e così, per favorire la reciproca conoscenza, ha chiesto ad ognuno dei bambini di farsi raccontare dei proverbi o delle storielle proprie della terra d’origine, da narrare poi a turno ai propri compagni di classe.

Mia zia ha lasciato la Puglia da ragazzina e, pur tornandoci in vacanza quasi ogni anno, non aveva memoria di quanto richiesto dalla maestra, così mi ha chiesto di fornirle un po’ di materiale in merito. 

Ho raccolto volentieri l’invito e, mentre buttavo giù due righe, ho pensato a quando, anni fa, raccontavo le favole a mio figlio per farlo addormentare (erano favole così efficaci che di solito il primo a prendere sonno ero io!) ed a come potrebbe essere interessante, per chi vive e lavora fuori Taranto, raccontare ai figli qualche storiella con il sapore della saggezza popolare ionica. Penso ad Alessandro ed a Vincenzo in Lombardia, ad esempio, oppure a Massimo nella lontana Spagna oppure a Marco nella fredda Svezia, ma penso anche a chi a Taranto ancora ci abita, ma magari alcuni di questi racconti non li conosce o non li ricorda.
A tutti loro, ed ai loro bimbi, sono dedicate queste storielle, che non hanno certo la pretesa di insidiare la fama di Cenerentola o Biancaneve, e che sarà compito di chi le racconterà sviluppare ed arricchire in base ai propri ricordi ed alla propria fantasia sulla base del breve riassunto di seguito riportato.
Buona lettura!


L’anello di San Cataldo
Cominciamo, doverosamente, con quella dedicata al Santo Patrono della città di Taranto, ovvero San Cataldo. Si racconta che fosse un vescovo irlandese che, di ritorno da un pellegrinaggio in Terra Santa, fece naufragio sulle coste ioniche perchè destinato a portare conforto e fede alle popolazioni tarantine duramente provate dalle invasioni dei pirati saraceni.
Sotto la sua guida spirituale la città ebbe una nuova rinascita e la fede crebbe con vigore, anche grazie ai numerosi miracoli ed alle tante prodigiose guarigioni operate dal Santo. Si racconta che un giorno San Cataldo fosse a bordo di una barca, sorpresa in mare ad una improvvisa e violenta tempesta; nel vedere le onde crescere momento per momento il suo equipaggio fu preso da terrore e lo pregarono di intercedere per loro salvezza. San Cataldo allora si sfilò il suo anello pastorale e lo gettò in mare, ottenendo così l’immediata scomparsa della bufera e in più, miracolo nel miracolo, nel punto dove l’anello si era immerso, l’acqua del mare non era salata, ma dolce e fresca come quella di un fiume di montagna!
Questo particolare punto del mare di Taranto viene chiamato proprio “Anello di San Cataldo”, in ricordo di quell’evento, ed è facilmente individuabile, per via della differente colorazione e movimento delle acque, anche ad un occhio poco esperto. Si tratta in verità, come è stato scoperto non molti anni fa, di un “citro”, ovvero dello sbocco in mare di uno dei tanti fiumi carsici che, partendo dagli altopiani della Murgia tarantina, corrono sotterranei sino al mare e che, a causa del continuo apporto di acqua dolce e fresca hanno reso i mari di Taranto ideali per la coltivazione delle cozze. Si tratta, insomma, di un fenomeno fisico molto chiaro ma a Taranto, sotto-sotto. Sono in tanti a sperare che sott’acqua, magari nascosto dalla sabbia, ci sia l’anello di San Cataldo che veglia sulla incolumità dei pescatori...


Il gallo e il topo
Un gallo ed un topo decisero di aiutarsi a vicenda per raccogliere delle noci; il gallo le avrebbe staccate dall’albero ed il topo, giù in basso, le avrebbe raccolte in un sacco per farne poi parti uguali. Il topo però, via via che il gallo faceva cadere le noci, le rodeva con i suoi denti e le divorava in men che non si dica. Il gallo, accortosi che il compagno non manteneva i patti, per punirlo gli fece cadere una grossa noce dritto in testa e il topo, colpito in pieno, scappò via gridando: “Mièdeche, sanème u cucheruzze, ca m’l à rutte cumbàre jaddùzze!” (dottore curami il cucuzzolo, perchè me l’ha rotto Compare Galluccio!)
E’ una storiella che si racconta ai bambini per ammonirli a non essere golosi ed egoisti.


La volpe e il riccio
Sorpresa nel bosco da una bufera di pioggia e neve, una volpe riuscì a malapena ad infilarsi, tutta rannicchiata in una piccola tana. Dopo un po’, nel pieno del temporale, giunse un riccio che, tutto intirizzito, la pregò di farlo entrare tanto, disse, si sarebbe appallottolato su sé stesso ed avrebbe occupato pochissimo spazio. Mossa a pietà la volpe lo fece entrare ma il riccio, una volta entrato, iniziò a sgranchirsi, a scuotersi la neve da dosso ed a distendersi in lungo ed in largo, pungendo più volte la volpe che gli aveva dato ospitalità.
Questa allora si lamentò ricordandogli i patti ed il riccio, arrogantemente, rispose: “A cci se ponge cu jèsse fore!” (chi si sente pungere esca fuori!).
E’ un modo di dire usato per sottolineare l’altrui ingratitudine ma, più spesso, per invitare chi non gradisce una determinata situazione, a dirlo con chiarezza.


Il lupo e l'orso
Un giorno di tanti anni fa, la foresta era tutta in agitazione: il leone aveva la febbre e stava molto male. Tutti gli animali andarono a trovare il re della foresta, per suggerire una cura o per portargli una parola di conforto in attesa che guarisse e tornasse a ruggire più forte di prima.
Tra i tanti animali accorsi al capezzale del regale malato c’erano anche un lupo ed un orso, che cercarono, come gli altri visitatori, di alleviare il disagio della malattia del leone.
Fu così che l’orso, un po’ per farsi bello davanti al re leone ed un po’ per fare un dispetto al lupo - con cui non era mai andato molto d’accordo - disse: “Mi sembra che il nostro re soffra il freddo a causa della febbre, bisognerebbe coprirlo con una bella pelliccia calda, magari con quella di un lupo!”.
Non aveva neppure finito di parlare che subito alcuni giovani leoni si avvicinarono al lupo, decisi a togliergli la pelliccia per riscaldare il febbricitante malato.
Il lupo però, vista la sua pelle in pericolo (in tutti i sensi!) fu lesto a rispondere: “Ben volentieri offrirei la mia umile pelliccia per la salute del nostro amato sovrano, ma questa è piccola e tutta spelacchiata, del tutto insufficente per coprire e scaldare il nostro grande re. Molto meglio sarebbe usare per la bisogna la calda e folta pelliccia di un grosso orso!”. Così i leoni si lanciarono sull’orso e in men che non si dica lo scuoiarono dalla testa ai piedi, mentre il lupo lo ammoniva dicendo: “A cammera reale, no’ dì bene e no’ dì male!” (nella stanza del re non parlare né bene né male degli altri). Il detto viene usato per consigliare qualcuno a non parlare male di altri di fronte ai superiori, perché il suo dire può ritorcersi contro di lui.

La zita di Pulsano
A Pulsano, un paesino della provincia di Taranto, c’era una volta una ragazza vanitosa a cui piaceva molto vestirsi con abiti pieni di fiocchi e ghirlande. Immaginatevi quindi come era vestita il giorno del suo matrimonio: una gonna ampia e con un lungo strascico, un corpetto tutto nastri e lustrini ed un cappello pieno di alte piume che oscillavano ad ogni movimento.
Al momento di entrare in chiesa per la cerimonia però si presentò un problema: il vestito e il cappello erano così ingombranti e voluminosi che non passavano dalla porta ma la zita (sposa) non voleva togliersi il cappello per non rovinare l’acconciatura dei capelli né voleva piegarsi per non sgualcire il vestito, pretendendo invece che venissero chiamati dei muratori per allargare il vano della porta a forza di picconi. Il tempo intanto passava tra l’attesa dei muratori, i capricci della novella sposa e l’impazienza, sempre più crescente, degli invitati finché uno di loro, stufo di aspettare, si piazzò dietro la sposa viziata e con un improvviso calcio nel sedere la fece arrivare di colpo al centro della chiesa!
Ancora oggi, si indica come “a zita de Pusane” (la sposa di Pulsano) una persona che attende a lungo o che ha pretese capricciose.

Uno strano guadagno
Nel 1385 Maria de Brienne, contessa di Lecce, andò in sposa a soli 17 anni a Ramondello Orsini, principe di Taranto. Alla morte di costui, avvenuta nel 1406, Ladislao, re di Napoli, partì con un grosso esercito per occupare questi due ricchi territori, vasti più della metà del suo reame. Ma purtroppo per il re Ladislao, i soldati di Maria de Brienne opposero una valorosa resistenza e la guerra proseguiva ben oltre le attese del re napoletano.
Ladislao allora decise di tentare di ottenere con l’inganno quanto non aveva conquistato con la forza, e fece dire a Maria da uno dei suoi ambasciatori che era rimasto colpito dal suo coraggio e dalla sua bellezza e voleva sposarla al più presto. Maria fu molto lusingata dalla proposta ed a chi la avvertiva sulle reali intenzioni di Ladislao rispondeva: “Non mi interessa, morirò regina!”. Il matrimonio fu celebrato con grande sfarzo nel castello di Taranto ma Maria fu regina per pochi mesi, dopo i quali venne chiusa in prigione a Napoli per ben undici anni, fin quando, morto Ladislao, venne liberata.
A questo triste episodio si ispira a Taranto il detto “U uadagne de Maria Prène!” (il guadagno di Maria de Brienne) che indica un evento in cui ad un piccolo vantaggio si associa un grosso danno.

Le proteste di fratello Spiridione
Molti anni orsono, si teneva nella sede di una confraternita religiosa tarantina la tradizionale asta per aggiudicarsi l'onore di partecipare alla processione dei Misteri durante la settimana santa pasquale, ed ognuno dei confratelli, interpellato dal Priore, esprimeva la sua offerta. Giunto il turno del confratello Spiridione, richiestogli quanto egli intendesse offrire, questi rispose con un secco e deciso "niente!". La cosa destò notevole stupore tra gli altri confratelli, poiché Spiridione si era sempre contraddistinto per la generosità delle sue donazioni.Interrogato dal Priore sul perché della sua astensione, Spiridione sfogò l'amarezza accumulata e repressa per un anno, lamentandosi del fatto che durante la processione, la "troccola", il caratteristico strumento che apre la processione e ne stabilisce il ritmo dell’avanzamento con il suo crepitio, non si fosse fermata davanti alla sua abitazione salutandolo con il suo caratteristico suono, così come era usanza fare davanti alle abitazioni dei confratelli. La cosa era molto dispiaciuta a Spiridione che esprimeva così il suo disappunto e allora, senza perdere tempo, il Priore afferrò la troccola e portatosi davanti a Spiridione, si lasciò andare ad una lunga e intensa "trucculesciata", al termine della quale il sorriso tornò sul volto di fratel Spiridione che, senza altri indugi, contribuì all'asta in modo ancor più generoso che in passato.

Dall'aneddoto citato nasce il detto "A trucculesciata di fratel Spiridione", ad indicare un atto di riparazione ad un torto tardivo. 


Il regalo della regina
Nel maggio del 1797 il re Ferdinando di Borbone venne in visita a Taranto accompagnato dalla moglie Carolina e, come sempre in queste occasioni, la reale coppia fu subissata di preghiere, istanze e domande. Fu tra l'altro chiesto di diminuire il tassa sul pescato, che all'epoca ammontava ad un quarto di quello che veniva tratto a riva. La regina, in partenza per una dilettevole battuta di pesca con tutto il suo seguito, promise allora che il primo pesce che avrebbe abboccato al suo amo sarebbe stato esentato dalla tassa.

La fortuna giocò un tiro birbone ai tarantini ed il pesce che per primo abboccò all’amo regale fu un misero gobbione, pesce di scarso valore e che certo non era in cima alle preferenze degli speranzosi pescatori.

Da allora "u pregge d'a riggina" (il privilegio o il dono della regina, quanto la regina si è compiaciuta di donarci; questa la traduzione del motto) indica, con la rassegnata ironia che contraddistingue il tarantino, una concessione o un dono assai inferiore a quanto era stato millantato o promesso dal donatore.

Ultimo aggiornamento ( mercoledì 02 novembre 2005 )
 
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