KOYTO RYU |
sabato 02 luglio 2005 | |
Gli anni '80 furono anni di grandi contrasti e sconvolgimenti
sociali ed economici: Spandau Ballet contro Duran Duran, punk contro
new romantics, la disinvolta e spendacciona "Milano da bere" contro
l'austerità di Tacher e Reagan, le ingessate presentazioni televisive
di Pippo Baudo e Mike Bongiorno contro quelle spigliate di Carlo
Massarini, le rarefatte e polverose atmosfere intellettualoidi della
cultura della Taranto-bene contro l’ormonale sudore dei concerti di
Provincia Estate, del Tursport, del circolo ILVA.
Il decennio precedente, con la crisi petrolifera del 1973, appiedò gli
italiani e gli fece dolorosamente conoscere l’esistenza dei paesi arabi
(mai troppo deplorati per aver dato a Tony Santagata la scusa per
scrivere il suo “Austerity”) mentre con i film di Bruce Lee e dei suoi
epigoni spalancò le porte al misterioso mondo delle arti marziali
cinesi. Negli anni ’80 la tecnologia diede un netto passo avanti con i
primi videogiochi elettronici ed i primi computer che si collegavano
alla televisione di casa per lo stupore sconcertato di nonni e genitori
ed il mondo cominciò ad espandersi a vista d’occhio; gli anni ’80
furono anche gli anni del Giappone e del “Kai Zen”, la rivoluzionaria
idea della Qualità applicata alla produzione industriale. Così, sulle sponde dello Ionio, dopo Spartani, Epiroti, Latini, Aragonesi, Svevi, Francesi e Spagnoli, sbarcarono i giapponesi della “Nippon Steel”, incaricati esaminare e di migliorare i sistemi produttivi del IV° Centro siderurgico. In effetti dei giapponesi si mormorava molto, ma quasi sempre per testimonianza indiretta: pochi erano coloro che avevano a che fare direttamente con loro a causa della difficoltà nelle comunicazioni e della loro naturale riservatezza. Non che poi i figli del Sol Levante ci tenessero molto ad integrarsi, nella palazzina della nuova direzione ILVA sulla strada per Bari si erano fatto costruire un tradizionale giardino zen (oggi miseramente abbandonato) tutto per loro, e l’intera ala di un noto albergo cittadino, compresa una cucina ed un ristorante, erano stati esclusivamente riservati agli ospiti nipponici. Insieme ai tecnici siderurgici però a Taranto arrivo, timido e riservato come i suoi compatrioti il Maestro Motudoke Susaumuse, grande esperto di Arti marziali e capo scuola del Go-Do-Jutsu, un arte marziale conosciuta e praticata, spesso in segreto, da pochi adepti. Già il nome stesso dell’Arte si presta a due diverse interpretazioni: infatti Go in giapponese può significare sia “cinque” che “duro”, la differenza dei due termini è resa nei relativi ideogrammi, che però hanno la stessa pronuncia. Così, poichè Do significa “Via“ o “metodo“ e Jutsu “pratica”, si può dire che Go-Do-Jutsu è il “Metodo della Dura Pratica” oppure la “Pratica delle Cinque Vie”; le due interpretazioni sono entrambe sostenibili, perchè il Go-Do-Jutsu ha nella durezza del praticante un requisito irrinunciabile ma ha come obbiettivo e fine il raggiungimento dell'armonia e della soddisfazione del praticante attraverso lo sviluppo e la sollecitazione delle "cinque Vie" che altro non sono che i cinque sensi del corpo umano. Poiché ciascun praticante è diverso dagli altri, la pratica di ognuno procede in modo differenziato, ciò non di meno si possono individuare alcuni momenti fondamentali che costituiscono le basi della disciplina. La pratica inizia solitamente verso l'adolescenza, ed il praticante inizia il suo allenamento con alcuni "suburi" (esercizi) individuali. Poiché questo momento segna l'inizio della pratica di una disciplina che continuerà per tutta la vita, è fondamentale che il discepolo si concentri in profondità ed affronti con consapevolezza l'esperienza che si appresta a vivere. La necessità di una grande concentrazione fa si che i suburi vengano solitamente eseguito dal praticante da solo, chiuso nel riserbo di una stanza che, grazie alla presenza di acqua corrente, permetta il necessario lavaggio purificatore dopo che, al termine della pratica, tutto il "Ki" (energia vitale e principio generatore) sia sgorgato dalla profondità dell'Hara (addome). A prima vista, ad un osservatore distratto ed inesperto, il suburi può sembrare monotono e ripetitivo, poiché consiste quasi esclusivamente in un movimento sostanzialmente sussultorio del pugno, ma ad una analisi più attenta si nota che ciascuno adotta un ritmo, una velocità ed un andamento tali da rendere ogni seduta di allenamento diversa dalle altre. In questa fase, la già evidenziata necessità di concentrazione e la comprensibile riservatezza che deve accompagnare l'inizio di un cammino esoterico, fanno si che il tutto si svolga nel quasi assoluto silenzio, per meglio affinare la comprensione delle energie sottili che il praticante sviluppa. In questa fase il praticante si serve spesso della teoria per meglio sviluppare la pratica, e ricorre quindi sovente a pubblicazioni, riviste e/o videocassette specializzate che illustrano con dovizia di particolari le tecniche che un giorno si troverà ad eseguire nella pratica grazie alle strabilianti prestazioni nel "randori" (combattimento libero da regole) di Rocco Siffredi Sensei o di John Holmes Shihan. Vale per tutti però l'insegnamento che il Maestro Motudoke Susaumuse ripeteva ai suoi discepoli: "Per la pratica ci vuole F.I.C.A“. (ovvero Forza, Impegno, Costanza, Applicazione). La Ryu (Scuola marziale) che meglio di altri ha realizzato gli ideali del Fondatore dell’Arte è senz’altro la Koyto-Ryu, nella quale al discepolo viene insegnato a mettere in pratica i principi del Go-Do-Jutsu tanto a lungo sperimentati negli esercizi individuali. Come in tutte le discipline orientali, anche in questo caso grande attenzione è data all'armonia dell'azione ed in particolare al rispetto dei principi dello Yin-Yang e per questo quasi sempre si inizia la pratica con un partner di sesso opposto, che permette di esprimere al meglio le tecniche da applicare e studiare. Ancor più che nella pratica individuale, da questo momento in poi ognuno segue la propria strada, affinando le tecniche a lui più congeniali per conseguire il massimo grado di perizia dell'Arte. Proprio nel confronto col partner i principi del Go-Do-Jutsu trovano la migliore espressione: la durezza del praticante è necessaria per penetrare a fondo i segreti dell’Arte ed inoltre tutti i cinque sensi devono essere tutti impiegati per poter ottenere un risultato soddisfacente; alcuni di questi hanno una caratteristica spiccatamente "ricettiva" (vista, udito, olfatto), altri (gusto e tatto) hanno caratteristiche sia "attiva" che "passiva", ovvero possono contribuire al raggiungimento sia della propria soddisfazione che di quella del compagno/a di pratica. A differenza dei suburi individuali, ed anche per allenare opportunamente l'udito, durante la pratica è consigliabile l'uso del "kiai", ovvero l'emissione di suoni, grida, urla e quanto altro possa contribuire da una parte a scaricare tramite il diaframma l'energia compressa nell'Hara, e dall'altra fornire al partner utili indicazione per la migliore esecuzione della tecnica in corso di esecuzione. Come in tutte le Arti, una perizia assoluta è irraggiungibile ed il mezzo è anche il fine; in altri termini nessuno mai potrà dire di aver raggiunto la conoscenza completa delle tecniche della Koyto-Ryu perché ognuna di queste cambia, seppure impercettibilmente, a seconda del partner con cui pratichiamo, così come allenarsi nel Go-Do-Jutsu già soddisfa il discepolo, aldilà del traguardo che raggiungerà un giorno. Come in molte discipline marziali, c'è chi preferisce praticare sempre con lo stesso partner e chi invece trova maggiori stimoli quando il compagno varia frequentemente, allo stesso modo c'è chi preferisce praticare con un solo compagno e chi invece affronta incontri con due o più partner. C'è chi, infine, pur dedicandosi principalmente alla pratica della Koyto-Ryu, non tralascia di ripassare periodicamente i suburi individuali sperimentati nella adolescenza, ancora c'è chi invece di praticare sul tatami (la tradizionale materassina) preferisce spostarsi in grandi spazi aperti quali prati, spiaggie o parcheggi fuorimano oppure, viceversa, in spazi chiusi e ristretti come automobili, cabine di ascensore, bagni di locali pubblici. Come detto, non c'è una regola fissa e invariabile e il praticante viene incoraggiato a seguire le proprie inclinazioni e le proprie attitudini. Pur ribadendo l'assoluta individualità del percorso marziale di ciascuno, nel tempo sono state codificate alcune kata (forme ed esercizi), utili ad apprendere le tecniche ed a migliorarne l'applicazione; uno delle più famose raccolte è il "Kata-Sutra" (letteralmente “raccolta di Kata“), che contiene svariate forme base, oltre a diverse henka-waza (varianti) e oyo-waza (applicazioni) che, nonostante i secoli passati dalla loro codificazione, risultano sempre attuali ed interessanti sia nello studio che nella pratica. Per praticare al meglio, nella Koyto-Ryu grande importanza viene data al Pen-Jutsu, ovvero alla pratica con lo strumento che viene principalmente impiegato nelle tecniche studiate; senza addentrarci troppo in spiegazioni dettagliate che esulano dall'ambito della presente trattazione, ci limiteremo ad evidenziare il modo in cui il praticante può presentare il suo "pen" al proprio compagno/a di pratica. Vi sono cinque - numero che, non a caso, richiama i cinque sensi da allenare - kamae (posture) principali, ovvero: - Gedan no kamae: In questo caso il "pen" ha l'estremità rivolta verso il basso ed è quindi una postura assai poco minacciosa per l'avversario; il nome sembra che derivi dalla storpiatura dell'esclamazione di stizza ("Ce dann!!") pronunciata nel dialetto di Mhusuka dal famoso spadaccino Myamoto Miskuashy quando si rese conto di non riuscire a sollevare, a causa della sua avanzata età, la pesante arma con cui voleva punire il suo discepolo Sualholyo Sprushay, colpevole di avergli distrutto il risciò appena comprato. - Chudan no kamae: In questo caso il "pen" è pronto alla azione in una posizione mediana che vale sia per l'attacco che per la difesa, molto naturale; anche in questo caso sembra che il nome della postura derivi dalla crasi di “Cì mhù dann!“ una altra espressione di Myamoto Miskuashy, (che significa all'incirca "se me lo danno") che così rispose in tono di sfida a chi gli chiedeva se era in grado di trapassare con la sua arma il pesce della principessa imperiale Kuan Tanewole. - Jodan no kamae: Posizione di attacco e sfida, in cui il "pen" è ben alto e mostrato all'avversario in tutta la sua lunghezza, in segno di sfida ed invito a praticare. - Hasso no kamae: Postura con il "pen" leggermente più basso rispetto alla precedente, ma sempre ben alto ed evidente, come l'omonima carta da gioco napoletana del seme di bastoni, da cui la postura prende per analogia il nome. - Waki no kamae: Postura sostanzialmente di difesa, in cui il "pen" è nascosto dietro la gamba destra del praticante ed ha la punta rivolta indietro e verso il basso; anche in questo caso sembra che il nome sembra dovuto alla contrazione di una esclamazione di Myamoto Miskuashy che, già avanti con gli anni, non riuscendo a trovare il suo "pen" borbottò "Wa-yakkialo!" (letteralmente: “Vai a trovarlo!”). Pur essendo, come detto, il percorso di studio e applicazione sostanzialmente individuale e dipendente dalla predisposizione e dalla costanza nello studio del praticante, nel curriculum della Koyto-Ryu sono stati codificati dei Kyo (principi applicativi) che danno poi il nome alle tecniche che li impiegano e che di seguito si riportano in un elenco indicativo e non certo esaustivo; come per tutte le arti orientali, il nome stesso della tecnica allude, più o meno esplicitamente, alla modalità di applicazione. - Pik-kyo: Tecnica energica in cui i due praticanti si scambiano colpi e percosse più o meno violente al fine di stimolare il loro "kime" (energia, entusiasmo). Utile seppure non indispensabile l'ausilio di frustini, manette e maschere di pelle. - Suk-kyo: Tecnica applicata principalmente in "hanza-handachi waza", ovvero con un praticante in ginocchio e l'altro in piedi di fronte a lui. La posizione ed il nome della tecnica chiariscono a sufficienza quale sia la modalità di applicazione. - Spek-kyo: Più che una tecnica vera e propria questa è una applicazione particolare, in cui i due partner praticano di fronte ad una superficie riflettente per controllare meglio le rispettive posizioni ed ispirarsi maggiormente durante l'allenamento. - Rak-kyo: Tecnica praticata con partner di scarsa valenza estetica, applicata solitamente con un cuscino a coprire il suo volto. - Cok-kyo: Tecnica applicata principalmente in "suwari waza"; il partner è carponi con mani e ginocchia sul tatami come fosse un cavallo, chi applica la tecnica si porta alle sue spalle come fosse il conduttore di una biga romana. I non praticanti la conoscono col nome meno poetico di "pecorina". - Muk-kyo: Tecnica applicata contro attacchi di più avversari che richiede notevole prestanza e resistenza; in presenza di più maschi, è bene attenzione ad eventuali attacchi "ushiro dori" (prese alle spalle) che potrebbero essere seguiti da un doloroso "irimi" (entrata nella guardia). - Sek-kyo: Tecnica applicata contro un partner di assai vasta "esperienza", la cui notevole “accoglienza” viene paragonata al noto contenitore domestico. - Thak-kyo: Tecniche di livello superiore applicate al buio per sviluppare lo "awase" (percezione) che richiedono però grande precauzione in caso di presenza di pilastri o applicazione contemporanea di Muk-kyo. - Rik-kyo: Serie di tecniche applicate con partner dello stesso sesso. |
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Ultimo aggiornamento ( domenica 03 luglio 2005 ) |
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